Fabio Bavetta intervistato da Solomente

Quando quella notte del 15 gennaio 1968 un terremoto rase al suolo il suo paese nella valle del Belice in Sicilia, Fabio Bavetta era nel pancione di sua madre. Dopo cinque mesi nasce a Roma, dove la sua famiglia si era temporaneamente trasferita, ma ritorna nella sua Sicilia dopo circa un anno. Qui cresce nelle baracche del post-terremoto, dimore inizialmente provvisorie, ma che alla fine sono state il luogo di tutta la sua infanzia: calzini scivolati sulle caviglie, croste perenni sulle ginocchia, la prima (e ultima) sigaretta a otto anni, amori incisi sulle cortecce degli alberi. In questo mondo si muove all’ombra di un uomo con un gilet e un Borsalino bianco. L’uomo lo circonda di fumetti, copie del National Geographic, del Reader’s Digest e soprattutto libri; gli dà il biglietto per girare il mondo restando seduto su una poltrona. Ma soprattutto lo mette davanti ad una macchina meravigliosa: una Remington nera, un oggetto magico che fa apparire le parole su un foglio bianco, basta schiacciare dei tasti.

Siamo a metà degli anni ‘70 e nell’angolo di una stanza avviene una magia: sul foglio fissato sulla Remington appaiono le prime parole. Le parole si trasformano in frasi. Le frasi diventano la prima lettera di amore di un bimbo a sua madre. Il seme è stato piantato.

Il bimbo scopre che può fissare su carta tutto quello che prova, quello che immagina e sogna. Adesso ha le chiavi per aprire porte che sbucano su altri mondi. È eccitato e timoroso, ma fiducioso. E alle sue spalle c’è sempre l’uomo con il Borsalino bianco.

Complice suo fratello maggiore a otto anni ascolta rapito “Parsifal” deiPooh e “The Wall” dei Pink Floyd, imparando a volare sugli assoli di chitarra della parte strumentale di Parsifal e di Comfortably Numb.

La clessidra si capovolge innumerevoli volte e l’adolescenza produce poesie, anzi no, forse il termine è esagerato. Sembrano piuttosto testi di canzoni, a volte la metrica viene rispettata, a volte no. Ma va bene così, forse è soltanto l’impeto e la ribellione della adolescenza. Comunque questi componimenti si accumulano nel tempo, uno, due, tre quaderni: la sua Stanza dei Sogni, il diario delle emozioni che in quegli anni attraversavano il suo cuore.

La clessidra continua a capovolgersi e Fabio vola per due anni sugli elicotteri della Polizia di Stato, prima di trasferirsi a Pavia dove si laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche e si specializza in Sintesi Chimica al Politecnico di Milano. Siamo negli anni ’90, la vecchia macchina da scrivere è stata inghiottita dal Tempo, adesso ci sono le tastiere dei pc. Ma le chiavi per aprire altri mondi sono sempre lì, solo meno rumorose dei tasti di quella Remington.

Nascono i primi racconti, acerbi, genuini, ingenui (e in questo preciso momento mi accorgo che “ingenui” è l’anagramma di “genuini”). Ma la sensazione di fissare su un foglio bianco una storia immaginata, di renderla concreta, è una sensazione meravigliosa. Quel seme piantato venti anni prima sta germogliando.

Scopre la sua intolleranza al lattosio e alla cattiva informazione. Idiosincrasia che lo porta ad affiancare alla sua attività di chimico farmaceutico prima e di farmacista dopo, quella di promotore di seminari nelle scuole sulla corretta informazione scientifica, soprattutto in campo alimentare. Di questi temi scrive anche su testate giornalistiche online.

Pubblica il suo primo romanzo breve, “Mooge’s”, scritto di getto in una notte infestata da incubi. Poi la vita gli fa uno sgambetto, di quelli brutti. Cade, e quando si rialza vede un’ombra crescere davanti a sé. Non ha bisogno di voltarsi indietro, sa già chi è, anche se lui non c’è più da oltre trent’anni. È l’ombra dell’uomo con il Borsalino bianco.

È il catalizzatore, la Voce degli Dei. Nasce così “Eagle Street”, il suo secondo romanzo.

“Eagle Street” è la storia di quei bambini i cui calzini scivolano sulle caviglie, che hanno gli occhi pieni di meraviglie e il cuore, a volte, colmo di misteri. A raccontarla è Joe Dooley, un adulto che non crede ai fantasmi, ma che ogni mattina, quando si rade, ne vede uno allo specchio. È il fantasma del bambino che è stato e che vive ancora dentro di lui. Cosa è rimasto di quel bambino?

Inizia così un viaggio nella sua infanzia che lo porterà a scoprire come
si diventa grandi, quello che si perde e quello che rimane, fantasmi
compresi. È nel passato che si cercano i fantasmi. È lì che si annidano ed è lì che a volte li troviamo. A volte ci riconciliamo con essi. “Eagle Street” è una storia che comincia con un topo morto appeso ad uno spago.

SOLO TRE DOMANDE

  • Mi de­scri­vo con solo tre ag­get­tivi­
    • Curioso.
    • Osservatore.
    • Visionario.
  • Il solo even­to che mi ha cam­bia­to la vita
    • Una telefonata senza risposta.
      È l’estate del 1984, i primi giorni di agosto, sono sulla spiaggia di
      Torvaianica. Devo rientrare per iniziare la preparazione pre-
      campionato di calcio. Non so esattamente quando inizierà. Chiamo il
      mister per tre giorni di seguito. Nessuna risposta. Allora non c’erano i
      cellulari. Nel dubbio rientro in Sicilia. Scopro che il mister era in
      vacanza e che era rientrato appena dopo la mia ultima chiamata. La
      preparazione sarebbe iniziata a fine agosto.
      Se avessi aspettato ancora un solo giorno, se avessi fatto ancora una
      telefonata, una sola, l’avrei saputo in tempo e sarei rimasto a
      Torvaianica.
      Se avessi aspettato ancora un solo giorno, se fossi rimasto su quella
      spiaggia, se non fossi rientrato in Sicilia, non avrei incrociato la
      persona che ha determinato il corso della mia vita.
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